Essere siciliani

“È martedì 27 giugno e siamo in Sicilia, sull’autostrada A29 che collega Mazara del Vallo a Palermo, nel beve tratto tra le cittadine di Carini e Capaci.

Alle ore 18:30 si verifica un grave incidente, nel quale purtroppo perde la vita una giovane donna. Il traffico si paralizza, inspiegabilmente.
Nessun veicolo riesce più a muoversi.
L’autostrada si trasforma in un lungo serpente di metallo rovente ed inizia un terribile calvario per centinaia di persone che, loro malgrado, rimangono intrappolate in un vero e proprio inferno. Con una temperatura di quasi 40° e nessuna via di fuga, i malcapitati non possono che sperare in un miracolo. L’autostrada è un luogo dal quale non si può fuggire. Non si può lasciare la macchina lì ed andarsene a piedi, e non si può andare nè avanti nè indietro perché davanti e dietro ci sono centinaia di altri automobilisti intrappolati anche loro. Il calvario inizia alle 19:00 circa e durerà ben cinque ore. Una sofferenza immane, praticamente immobili, con le scorte d’acqua (per chi ne ha) che si svuotano vorticosamente e il terrore di non sapere cosa fare. Per ore interminabili, il serpente di metallo non avanza, rimanendo lì, come un rettile al sole. Dopo quattro ore la situazione diventa insostenibile. I bambini iniziano ad avere fame e sete, i più piccoli piangono. I genitori sono disperati. È il panico. Un panico diffuso che toglie il fiato.
Ci guardiamo attorno disperati, non sappiamo che fare.
Ma siamo in Sicilia, terra di grandi tragedie ma anche di grandi miracoli.
E il miracolo, accade.
Un drappello di temerari, composto da alcune persone che vivono nelle case di villeggiatura poste nei pressi dell’autostrada, si avvicina alle reti di protezione che delimitano la carreggiata.
I volenterosi, capeggiati da una donna che ha uno sguardo fiero e gentile, iniziano a chiedere se ci sono bambini e se qualcuno può avere bisogno di acqua o generi di conforto. Dalle vetture si alzano delle disperate richieste d’aiuto. Un padre implora un po’ d’acqua “per il mio bambino, vi prego…”.
Come naufraghi che, risucchiati dalle onde, cercano disperatamente di aggrapparsi ad un legno galleggiante, anche altre famiglie in coda da ore sotto il sole cocente chiedono dell’acqua per i propri bambini.
Parte una straordinaria gara di solidarietà. La donna chiama a rapporto i giovani del gruppo, impartisce precise direttive e, all’unisono, un nugolo di “picciotti” sciama verso le rispettive case. I ragazzotti compiono la missione con determinazione e destrezza. Si precipitano, non esitano un solo attimo. In pochi istanti i frigoriferi e le dispense vengono saccheggiati e una staffetta perfettamente improvvisata fa arrivare sul posto ogni ben di Dio. Le mani dei naufraghi si protendono oltre le barriere di protezione che dovrebbero impedire ai cani randagi di accedere in autostrada, le mani dei soccorritori si protendono verso i bisognosi, porgendo agli automobilisti esausti quello che sembra arrivare dal Cielo. Acqua, prima di tutto, ma anche merendine e gelati “pi li picciriddi” (per i bambini). Addirittura degli omogeneizzati. Quel papà che aveva chiesto l’acqua per il figlio si commuove, non sa come manifestare la sua gratitudine. Imbarazzato, prende il portafogli… cerca di dire qualcosa che non sia troppo fuori luogo, poi esordisce con un “almeno un caffè vorrei potervelo offrire”.
Non l’avesse mai fatto. Dal popolo di soccorritori improvvisati ma efficentissimi si alza un coro unanime. Non accetteranno nulla per quel cibo che stanno offrendo. “U beni si fa senza addumannari nenti n’canciu” (il bene si fa senza chiedere nulla in cambio) dice sorridendo la direttrice dei soccorsi. “Si propriu voli, c”addumannu sulu na priera picchì i me figghi truvassiru travagghiu” (se proprio vuole, le domando solo di fare una preghiera per i miei figli, perché trovino un lavoro). L’uomo è imbarazzato, risponde solo “che Dio la benedica, signora “. Poi prende in braccio quel cibo, come fosse un bambino appena nato, da mostrare a tutti, ed inizia a girare per le macchine, distribuendolo anche agli altri automobilisti. Di macchina in macchina chiede se ci sono bambini e se qualcuno vuole dei gelati e delle merendine. Accanto a lui, il tizio che guidava la macchina che lo precedeva si occupa di distribuire l’acqua. In pochi minuti, decine di persone possono dissetarsi e i bambini possono mangiare qualcosa. Anche un signore anziano si avvicina timidamente… “potrei avere un gelato per favore…”, anche lui trova un po’ di ristoro.
Una piccola bimba indiana riceve un ghiacciolo e la madre ringrazia inbarazzata. Un ragazzino si avvicina incredulo, c’è un gelato anche per lui. Un giovane uomo di colore riceve l’offerta di un gelato, che rifiuta con grande cortesia, sorride dicendo “grazie ho già mangiato”. Una frase che, pronunciata come un automatismo, avrà già ripetuto molte volte, anche quando i morsi della fame gli facevano attorcigliare le budella.
Poi qualcosa si muove.
Il serpente di metallo fa un balzo avanti, si riparte.
I soccorritori ci salutano con la mano, come si saluta un amico su un treno in partenza.
Bene.
Questa è la Sicilia.
Questa è la Terra che amo.
Vivendo questa esperienza ai limiti dell’assurdo, non ho potuto fare a meno di pensare che proprio lì, a poche centinaia di metri dal luogo dove il Giudice Falcone era stato orribilmente assassinato insieme alla moglie e alla sua scorta, per mano di alcuni siciliani, altri siciliani stavano spontameamente attuando una vera e propria gara di solidarietà verso il prossimo, verso dei perfetti estranei, offrendo loro tutto quello che avevano in casa. Privandosene, senza alcuna esitazione. Così, solo per altruismo. Tutto questo, senza chiedere nulla in cambio e senza chiedersi se chi avrebbe ricevuto quel cibo era italiano o straniero, se era un uomo o una donna, se era amico oppure nemico.
Perché non è questo, forse, il senso più profondo e vero dell’aiutare il prossimo?
Tendere una mano a chi ne ha bisogno, nel momento in cui ne ha bisogno, senza chiedere nulla in cambio.
Come quella donna siciliana che martedì sera, senza saperlo, ai miei occhi ha onorato la memoria di Giovanni Falcone e di tutti gli altri caduti per mano mafiosa, nel miglior modo in cui questo poteva essere fatto.
Io dono tutto quello che ho, me ne privo per darlo a te, che neanche ti conosco, solo perché tu ne hai bisogno.
Onore”.
D. A.

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